Con il nuovo singolo “Silenzio”, gli AABU affrontano un tema tanto intimo quanto universale: quello delle distanze create dal non detto. Il brano si fa portavoce di un’urgenza emotiva che nasce da esperienze personali, ma che tocca corde condivise: la fragilità dei legami, il peso delle parole mai pronunciate, il bisogno di sentirsi compresi.
Attraverso un suono diretto e una scrittura autentica, la band trasforma il silenzio in materia sonora, in denuncia e in resistenza. Lontani dalle dinamiche effimere dei social, gli AABU rivendicano il valore del contatto reale e del confronto sincero, non solo nella musica ma nella vita quotidiana. In questa intervista, si raccontano con onestà, esplorando il rapporto tra arte e solitudine, tra fragilità e condivisione, tra urgenza comunicativa e bisogno di comunità.
In che modo il silenzio può diventare più rumoroso di qualsiasi parola?
Il silenzio può diventare più rumoroso di qualsiasi parola quando nasconde disagi e verità, diventando terreno fertile per i fraintendimenti e l’incomprensione, generando distanza tra le persone.
Il silenzio, quindi, non è assenza di comunicazione, ma una presenza pesante che può ferire più di ciò che viene detto. Ǫuando manca il confronto, manca anche il contatto umano, e senza contatto si rischia di scivolare nella solitudine.
In sintesi, è proprio il non detto che può avere un impatto più forte delle parole, perché lascia spazio al vuoto, alla chiusura e all’isolamento.
Il brano parla di distanze create dal non detto: è un tema che avete vissuto anche nel vostro percorso di band?
Le nostre canzoni nascono sempre da qualcosa che ci riguarda da vicino. Un’esperienza vissuta, qualcosa che ha lasciato il segno e che, attraverso la musica, sentiamo il bisogno di esorcizzare.
Per noi la musica è questo: un grido necessario.
“Silenzio” nasce proprio da un’esperienza intima e personale, ma ha preso forma con l’idea che potesse parlare anche ad altri, diventare una voce collettiva.
Non poteva restare una storia solo nostra: c’è troppa urgenza di rompere silenzi che oggi condannano l’umanità all’indifferenza.
Abbiamo bisogno di far sentire la nostra voce. Di dire basta a ingiustizie, violenza, oppressione.
Secondo voi i social hanno amplificato o attenuato i silenzi emotivi tra le persone?
Noi crediamo che i social abbiano spesso amplificato i silenzi emotivi, più che attenuarli. Anche se offrono la possibilità di comunicare costantemente, non sempre favoriscono un confronto autentico. Viviamo in una società in cui si tende a rifugiarsi nell’apparenza, nell’individualismo, e i social a volte diventano un’estensione di questo meccanismo.
Ci si espone, sì, ma solo in parte. I disagi, le fragilità, le verità più intime spesso restano nascosti, alimentando silenzi ancora più profondi. E proprio quei silenzi — quelli che non si vedono nei post o nelle storie — sono quelli che fanno più rumore.
Noi sentiamo forte il bisogno di vicinanza vera, contatto reale, comunità, e tutto questo non sempre passa attraverso uno schermo. Se non c’è confronto sincero, si rischia di scivolare nella solitudine, anche stando “connessi” tutto il giorno.
Che relazione c’è tra la paura di restare soli e il bisogno di essere compresi artisticamente?
Secondo il nostro punto di vista, la paura di restare soli e il bisogno di essere compresi artisticamente sono profondamente legati.
Ǫuando scriviamo musica, partiamo sempre da qualcosa che ci tocca da vicino — esperienze intime, personali, fragilità. Ma non lo facciamo per restare chiusi nel nostro mondo: al contrario, vogliamo trasformare quel vissuto in una voce collettiva, capace di parlare anche agli altri. È il nostro modo per dire: “Non sei solo, sento quello che provi.”
La solitudine, spesso, nasce proprio dall’incomprensione, dai silenzi che si creano quando manca il dialogo. L’arte diventa allora uno strumento per rompere quel silenzio, per cercare contatto, per creare ponti. Scrivere, suonare, condividere è il nostro modo di resistere alla distanza, di urlare la nostra presenza, nella speranza che qualcuno si riconosca in ciò che facciamo.
In fondo, ogni nota, ogni parola, è una richiesta di ascolto, una risposta alla paura di essere invisibili. E quando qualcuno si ritrova nella nostra musica, quella paura smette di avere potere. Anche solo per un momento, ci sentiamo meno soli, tutti.
Come rispondete, nel quotidiano, a quei silenzi che fanno male?
Fortunatamente siamo una band piuttosto longeva, e probabilmente lo siamo proprio perché abbiamo sempre saputo ascoltarci, anche al di fuori della musica. La vicinanza umana che ci lega è ciò che ci permette di restare uniti: siamo attenti ai bisogni reciproci, ci parliamo, ci confrontiamo, a volte ci scontriamo, ma sempre con sincerità.
Questo continuo dialogo è la base del nostro rapporto, vero, diretto, senza filtri. È lo stesso approccio che cerchiamo di mantenere anche nelle nostre relazioni fuori dalla band, con gli amici, con le nostre famiglie. Per noi la relazione — artistica o personale — si nutre di ascolto, confronto e rispetto. È questo che ci tiene insieme.