Ci sono artisti che usano le parole come
strumenti. E poi ci sono artisti che usano le parole come armi, come difese,
come specchi. Con “NAUSEA”, i Raiva costruiscono un immaginario urbano
che non si limita a raccontare il disagio: lo estetizza, lo trasforma in
visione, in metafora, in immagine fisica. Ogni brano dell’EP sembra una scena
di un film notturno girato nelle periferie interne della mente. È un progetto
che ha una poetica precisa: la nausea non è un sintomo fastidioso, ma un
linguaggio. È il corpo che parla quando la società non ti ascolta.
“Abaco” introduce questo immaginario con una
struttura che sembra un collage emotivo. I featuring moltiplicano i punti di
vista, come se il brano fosse una stanza piena di specchi deformati. Il
riferimento all’abaco è poetico e insieme crudele: un oggetto usato per contare
diventa il simbolo di una vita stimata, valutata, misurata continuamente. Il
loop sonoro riproduce la sensazione di essere imprigionati in un ritmo che non
puoi controllare.
“Chiuse le mani” porta la poetica su un piano più
carnale. Qui il linguaggio non è più metaforico: è fisico. Le mani chiuse sono
un simbolo chiaro — trattenere, frenare, resistere. Il suono ruvido amplifica
ogni parola. Il brano sembra scritto nella penombra, con la voce che si
arrampica sulle barre come se stesse cercando aria.
“Problemi” ribalta completamente il tono. È il
brano più “colorato”, più ironico, più veloce, e proprio per questo poetico in
un modo diverso. Racconta una verità semplice: quando non puoi risolvere i tuoi
problemi, puoi solo danzarci intorno. L’influenza punk aggiunge energia,
leggera ma affilata.
“Me Musa” è un viaggio nella stanza più buia
dell’immaginario Raiva: quella dove si confrontano l’autore e la sua anti-musa.
La scrittura è quasi diaristica, ma non indulgente. È un brano che racconta la
fragilità come detonatore creativo.
“Guerra senza fine” è il climax visionario
dell’EP. Le sonorità ibride — industrial, metal, rap, jazz, tribal — creano un
ambiente sonoro che sembra post-apocalittico. Il brano mette in scena un mondo
che vive in guerra perché ha paura di guardarsi dentro. È poesia ruvida, è
cinema distorto, è un rito urbano.
“NAUSEA” è un debutto
che non descrive un mondo: lo crea.

